BANNER LETTERARIO def

Il contest letterario io guardo, è iniziato sulle pagine del nostro calendario 2019 con i testi di Alessandro, Gioele e Thomas.
Ora prosegue durante tutto l’anno per creare, comporre, immaginare e muovere sguardi verso narrazioni nuove differenti moltepilici. 
Scrivi un racconto, le tue poesie, la tua canzone, una piece per il teatro, una storia.
Cerca di usare il maggior numero delle 24 parole che ”segnano” i testi del calendario.
Poi invia lo scritto (se vuoi, puoi associare anche una immagine) a quagliab@lavaldocco.it

 

Ravenna non è una città di mare. A nessuno viene in mente. Eppure ci sono giornate in cui da casa nostra riesco a sentire il suo rumore. Oggi è così. Lo sento che spinge da lontano mentre sto qui vicino alla finestra. C’è vento di tramontana, quello che arriva da nord, e pulisce il cielo, piega gli alberi, spinge le nuvole e le sparpaglia. Se guardo in alto, oltre il vetro, è tutto così perfettamente azzurro.

Come i tuoi occhi Emilia quando sei nata. Come le persiane della casa a Stromboli nella nostra ultima vacanza tutti insieme . Come la linea là in fondo, in direzione del mare, verso il porto. Da dove un giorno è arrivato tuo padre. E anche quel giorno c’era vento e soffiava forte. E avevo camminato per mettere a posto i pensieri. Perché smettono di essere tali se fanno pace tra loro. Se riesco a metterli in fila, se li posso guardare ad uno ad uno. E allora devo camminare. Un passo dopo l’altro, prima sulla cinta delle mura che chiudono a cerchio la città e poi giù nei vicoli che portano al mare e sulla spiaggia, dove i piedi affondano nella sabbia e io li ripesco con forza. L'ho fatto ogni giorno dopo che il medico ha indicato con una matita il punto esatto dove lo “straniero” aveva trovato posto nel fegato di tuo padre. Una macchia scura proiettata su uno schermo bianco. Tu che dormi nella carrozzina accanto a me. Tuo padre che si alza e va via. Io che resto lì mentre il dottore cerca le parole esatte per dire ciò che non voglio sentirmi dire perché ho trentadue anni, tuo padre ne ha solo dieci più di me, tu hai appena compiuto due mesi, dobbiamo cambiare casa tra una settimana, andiamo in quella più grande, dove ci sarà la tua stanza e un terrazzo in cima al tetto. E poi perché io non voglio stare senza il marinaio. Ma il dottore va avanti, non molla, va fino alla fine di ciò che deve dire. E io ti prendo e ti attacco al seno.

 

E poi ho iniziato a portarti con me ogni giorno, nel marsupio, sulla pancia. Lo facevo anche per lasciare lui tranquillo che aveva sempre sonno e tu piangevi, non tanto, come piangono i bimbi nati da due mesi. E’ che anche io avevo tanta voglia di piangere e stringevo gli occhi fino a farli bruciare. Allora uscivamo e le lacrime scivolavano veloci e lasciavano una scia. Ti addormentavi subito, le mani chiuse a pugno, la fronte appoggiata lì al centro dello stomaco, nel punto in cui il mio cuore sembrava faticasse a battere. E allora pensavo ai tuoi pensieri piccoli e densi che mi entravano dentro e cercavano uno spazio nel buio dei miei. E tutto sembrava improvvisamente più azzurro.

La prima volta che ho visto tuo padre frequentavo Architettura a Bologna ed ero tornata a Ravenna per le vacanze di Pasqua. Solo qualche giorno, giusto il tempo di stare un po’ con tua nonna e di rivedere qualche amica. Ravenna a quel tempo non mi apparteneva più. Mi piaceva non essere riconosciuta per strada, potermi confondere tra la gente e la massa di studenti che si spostava ogni giorno sotto i portici rossi e la sera si distribuiva nelle osterie attorno a San Petronio.

Abitavo in un appartamento su un ballatoio vicino a Porta San Vitale, lo dividevo con altre tre ragazze. Una che veniva da Modena e due da Torino. Te ne ho parlato qualche volta, ricordi? Che un giorno mi hai anche detto che potevamo cercarle su Facebook se avevo voglia di sapere che fine avevano fatto. Ma non credo di averne voglia. Se il passato vuole tornare per qualche motivo a riparlare di sé troverà il modo di farsi avanti senza andare per forza a cercarlo. Ora più che mai la penso così.

Non credo invece di averti mai detto che per un certo periodo ho lavorato in un laboratorio di ceramica. Due pomeriggi a settimana. Facevano piccoli oggetti in argilla, quelli per le bomboniere e poi cornici per le fotografie, scacciapensieri da appendere ai balconi. Li mettevamo a cuocere nel forno e li lasciavamo raffreddare su grandi tavoloni. Poi si doveva passare uno smalto liquido prima di dipingerli. Quello era il mio compito. Ci lavoravamo in due, io e un altro ragazzo di cui non ricordo il nome. Mi piaceva stare lì, china sul tavolo da lavoro, mentre la gente entrava a curiosare e Lucia, la proprietaria, li faceva avvicinare a guardare ciò che stavamo facendo. L'artista era suo marito Francesco. Che stava al tornio in un altra stanza. Non lo vedevamo quasi mai. Lucia invece era gentile e alla sera ci pagava la giornata e a volte arrotondava con una porzione di lasagna o di zuppa inglese che aveva cucinato al piano di sopra. Così aiutavo la nonna a mantenermi a Bologna senza sentirmi troppo in colpa. E forse la voglia di stare china su un tavolo da lavoro mi è rimasta tale e quale da allora.

Mi sono di nuovo persa e invece volevo dirti di tuo padre e della prima volta che l'ho visto.

Quel pomeriggio ero uscita a camminare verso Porto Corsini. Dovevo incontrare Caterina in un Caffè che avevano aperto da poco e che ancora non conoscevo. Il vento mi faceva stringere addosso la giacca e camminare a testa bassa tanto soffiava. Quando arrivai al Molo vidi Caterina venirmi incontro. Dietro di lei un assembramento di persone. "Ciao Cate" "Ciao Anna, come stai? " "Bene dai, ma che vento c'è?" Caterina mi prese sotto braccio e ci incamminammo "Cos'è? Una manifestazione?" chiesi a Caterina guardando oltre le sue spalle "Credo di sì. Anche l'altro giorno era tutto bloccato. Sono i marinai della Nave Libertad, mio padre mi ha detto che la nave non può salpare fino a quando la loro compagnia non ha saldato il debito che ha con il Porto. Ma probabilmente la compagnia è fallita e i marinai neanche lo sanno".

Saranno stati una cinquantina, si erano seduti per terra a interrompere il passaggio delle poche auto di quel pomeriggio. Stavano in silenzio. Neanche il vento sembrava scalfirli. "E nel frattempo dove vivono?" chiesi a Caterina.

"Devono aver occupato la Nave. Ma pare siano senza stipendio da mesi ormai. Non so quanto resisteranno ancora". Mentre camminavamo in fretta verso il Caffè sbucarono due blindati della polizia. Scesero una decina di poliziotti in tenuta antisommossa. In un attimo posizionarono la visiera dei caschi sugli occhi e iniziarono a marciare verso i marinai. Un paio si alzarono e si misero a correre verso la banchina ma gli altri rimasero seduti a terra, il mare che urlava alle loro spalle e copriva i passi dei poliziotti con i manganelli alzati pronti a picchiare. Arrivarono i primi colpi sulla testa e sulle spalle. Ora il grido dei poliziotti "Alzatevi, forza, via" copriva quello delle onde. "Ma che cazzo stanno facendo? Ma perché devono menare?" urlai forte. Cercai di fare qualche passo verso di loro ma le mie gambe non si muovevano. I marinai ora si coprivano la testa con le mani. Sull'asfalto erano comparse chiazze di sangue e quelli che non mollavano. Continuavano a picchiare e a trascinarli.

Caterina mi prese per la giacca "Andiamo via da qui" e mi spinse verso l'entrata del Caffè. Dentro poche persone sedute ai tavoli, in silenzio, il viso rivolto verso la vetrata, anche i camerieri immobili con i vassoi. Non so dirti esattamente quanto durò tutto quanto, a me sembrò un'eternità. Ad un certo punto nel Caffè entrarono quattro marinai, uno di quelli era tuo padre. Aveva la testa insanguinata. Il cameriere più giovane li fece sedere ad un tavolo vicino al bancone. La proprietaria gli portò un bicchiere d'acqua. Io mi avvicinai, gli diedi un fazzoletto "Mettiglielo sulla testa" dissi all'amico che lo guardava spaventato "Dovete andare in Ospedale" gli dissi "Magari devono dargli dei punti". Non mi capivano. Cercai di spiegarmi a gesti. Intanto tuo padre alzò gli occhi su di me. Mi sorrise con i suoi denti bianchissimi e le fossette, le tue, quelle che hai identiche agli angoli della bocca. E io rimasi lì con le mani che disegnavano parole. E lui con il mio il fazzoletto sulla testa. Non disse nulla. Era come se ciò che stava succedendo non lo toccasse affatto, neanche il rosso del suo sangue colato sui pantaloni.

Allora non sapevo che quello era il suo modo di prendere la vita e lo sarebbe stato per sempre. Fino all’ultimo sorso di respiro, quello che ha trattenuto e poi ha lasciato andare con un sibilo lieve in una sera di giugno che fuori era appena scoppiato un temporale. E io per un attimo ho pensato che i tuoni così forti lo avrebbero sicuramente svegliato. Ma poi sono arrivate le infermiere. E dentro ho sentito scendere un silenzio assoluto e bianco come le pareti. E non è più andato via, Emilia.

Quel pomeriggio tuo padre bevve l’acqua a grandi sorsi. Fece un cenno ai suoi compagni e si alzò. "Grazie" disse in italiano e quando fu sulla porta si voltò e sorrise ancora. Sorrise a me.

Il giorno dopo tornai a cercarlo al porto con la scusa di sapere se stava bene, se era andato in ospedale. L'ho riconobbi dalla benda sulla testa, in mezzo ad altri, sempre davanti alla capitaneria. Stavano discutendo tra loro. Quando mi vide arrivare mi venne incontro. "Io il tuo fazzoletto non ce l'ho più. Non so dove me lo hanno buttato" mi disse "Non importa. Volevo sapere come stavi" gli dissi "Sto bene. Mi hanno dato solo due punti. Niente di grave. Grazie ancora. Ti posso offrire un caffè?" mi chiese "Sì, va bene" ed entrammo nel Caffè del giorno prima e ci sedemmo ad un tavolo vicino alla finestra da dove si poteva vedere il mare e la Nave Libertad ancorata a poca distanza.

Non so Emilia se faccio bene a raccontarti tutto questo che mi sono tenuta in fondo a me per tanti anni, ma oggi va così. Oggi si è formata una crepa nel silenzio, sono venuti a trovarmi i ricordi e mi sembra di non poterli più tenere a bada, le parole si formano sulla tastiera e io non le so trattenere. Oggi che c’è vento e azzurro.

Quel pomeriggio lui mi raccontò della sua Argentina, della nave, della sua famiglia che non vedeva da più di sei mesi, della sua passione per la fotografia e di una donna che aveva lasciato prima di ripartire, non poteva chiederle di aspettarlo ancora. Io gli parlai della mia Università, di Bologna, di mia madre che insegnava Filosofia al Liceo Classico di Ravenna, di mio padre di cui non ricordavo quasi nulla, morto in un incidente stradale quando avevo appena due anni.

Quando ci alzammo era trascorso il pomeriggio e io mi ero innamorata Emilia. Mi ero innamorata all’istante. Io che ti faccio innervosire ogni volta che andiamo a mangiare fuori e ci metto ore ad ordinare, che prima di decidere una tonalità di colore da mettere in un mosaico possono passare dei mesi, mi bastarono le ore di quel pomeriggio per sapere con esattezza che era tuo padre che volevo.

Ci baciammo sulla banchina, vicino alla Libertad. Tuo padre allora aveva i capelli più lunghi di quelli della foto che hai nella tua stanza, e la barba scura che non faceva da giorni. Gli occhi invece erano quelli che conosci tu. Nerissimi, con le ciglia che li allungavano ai lati. Le tue ciglia belle anche senza mascara. Occhi dove potevo buttarmi e farmi prendere al volo. E poi le sue mani con le dita lunghe. Mani da pianista. Gli dicevo che quello avrebbe dovuto fare sulla Libertad. Come Novecento di Baricco. Le muoveva al ritmo argentino delle parole, quelle invece uscivano mezze arrangiate tra italiano, inglese e qualche bacio che mi dava quando non riuscivamo a spiegarci.

Durò così fino all’estate. Cercai di tornare a Ravenna il più possibile. Lui non venne mai a Bologna. Non si poteva allontanare dal porto. Il sindacato stava seguendo la loro situazione. Subito dopo l’estate la Nave sarebbe dovuta ripartire. Stavano trattando per un subentro di altra compagnia.

Finiti gli esami a luglio trovai lavoro in un albergo all’Isola d’Elba, a Marciana Marina. La proprietaria era un’amica della nonna. Il marito era isolano e lei si era trasferita lì per seguirlo. Era un posto vicino alla spiaggia. Non avevo voglia di andarci come puoi immaginare. Perché non avrei potuto stare con tuo padre. Probabilmente sarebbe ripartito prima del mio rientro. Non ci eravamo detti nulla. Non parlavamo mai di noi e di cosa avremmo fatto. Davo per scontato che sarebbe ripartito.

La prime settimane ci sentimmo quasi tutte le sere. Mi chiamava al telefono dell’albergo. Non potevamo stare molto. Sentivo il suono dei gettoni che scendevano mentre mi accucciavo dietro al bancone nella hall. Mi raccontava della trattativa in corso, delle proposte che la compagnia faceva loro.

“Sai già quanto ripartirai?” chiesi in una delle telefonate. Eravamo ormai a metà agosto. “Dicono che saremo pronti entro i primi giorni di settembre. La data non è ancora stata fissata. Tu quando torni?” "Qui chiudono a fine settembre" “Voglio rivederti” “Non so se facciamo bene a rivederci Tomas” “Voglio rivederti Anna” “Io non ne sono sicura. Mi spiace”.

Quella sera riattaccai senza aggiungere altro. Avevo ventiquattro anni Emilia e già mi sembrava che una vita sola non mi sarebbe bastata per tutto quello che avrei voluto fare. Se non poteva essere lui, smettiamola subito, pensavo.

Tuo padre non chiamò per giorni dopo la nostra ultima telefonata. Poi un pomeriggio ero andata a Sant’Andrea. Avevo due ore libere. Era una spiaggia larga con una parete di roccia bianca alle spalle. Facevo una nuotata al largo e poi mi appoggiavo lì. Leggevo tutto il tempo. Nulla di diverso da ciò che faccio ora quando siamo al mare. Stare in spiaggia con te è come starci da soli, mi dici sempre. Quel pomeriggio avevo appena aperto il libro quando vidi tuo padre camminare verso di me. Si era tolto le scarpe e si era arrotolato in pantaloni fino al ginocchio. La camicia buttata su una spalla. I capelli legati dietro. Mi alzai e rimasi immobile mentre si avvicinava. "Cosa ci fai qui?” gli chiesi senza neanche salutarlo “Sono venuto a dirti che non parto più” rispose “Cosa vuol dire?” chiesi “Resto qui” disse “Su questa spiaggia? Come un naufrago?” risposi ridendo.

Ci sposammo il 15 ottobre 1998. Un venerdì mattina nel Municipio di Ravenna. La Libertad era salpata la settimana prima e io avevo quindici giorni di tempo prima di tornare a Bologna che riprendevano i corsi all’Università. Dall’Argentina riuscì ad arrivare solo Felipe, il fratello più piccolo di tuo padre che fece da testimone. Pochi parenti, tantissimi amici. La nonna non era riuscita a rinunciare al cappello con la veletta. Aveva aspettato sto matrimonio per metterselo e nessuno glielo avrebbe impedito, su un completo giacca e pantalone blu da professoressa. Io invece indossavo un abito con una gonna lunga che faceva la ruota e delle paperine argento raso terra.

Ero felice Emilia. Ancora oggi quando ci penso sento quel sapore lì in bocca. Di quando tutto combacia, di quando sai che hai trovato il tuo posto nel mondo, e te lo senti dentro alla pancia. Guardavo tuo padre mentre fumava, rideva, muoveva le sue mani lunghe e lo trattenevo dentro agli occhi e poi giù a pizzicarmi la gola. E quando incrociavamo gli sguardi, i nostri corpi si appiccicavano e giravano al ritmo dei tamburi e della fisarmonica. Quella notte ho pensato che non sarebbe finita mai. E sono certa che lo pensava anche lui.

Il resto di noi un po' te l'ho raccontato, che siamo andati a vivere a Bologna, che tuo padre ha iniziato a lavorare in un'agenzia di viaggi, che io ho terminato l'università e, nonostante la nonna volesse vedermi professoressa di arte, ho iniziato a lavorare in un negozio di mosaici. Così abbiamo deciso di tornare a Ravenna. E poi sei arrivata tu. Esattamente un mese dopo che avevamo deciso di provare a fare un figlio. Esattamente due mesi prima dell’arrivo dello “straniero”.

Dovrei andare in laboratorio e riprendere a lavorare. Sto per finire il mosaico. Devo lucidarlo e appenderlo alla parete. Così che lo possa vedere appena entra. Un pannello di cinquanta riquadri di millecinquecento pezzi.   Che dovrò smontare e impacchettare per il viaggio. Diretto a Buenos Aires. Via Nave.

Alice è arrivata in negozio qualche giorno prima di Natale. Io stavo per chiudere e le ragazze del laboratorio erano già uscite per andare a mangiare. Era una giornata fredda. Mi ero tenuta su gli scarponcini tutta la mattina per tenere i piedi caldi. Alice aveva addosso una giacca a vento rossa con il cappuccio che le incorniciava il viso. Tu eri partita per il tuo viaggio a Cracovia il giorno prima.

“Se ne sta andando? Sta chiudendo?” mi ha detto ed mi è arrivato dritto dentro l’accento di tuo padre, il suo modo di trascinare le sillabe e farle rotolare in bocca come passi di tango nelle milonghe di Buenos Aires. “Sì, ma non c’è problema. Possiamo entrare” e le ho fatto strada in negozio. Ha iniziato a guardarsi attorno, si è tirata giù il cappuccio. Ha legato con un elastico i capelli lunghi e nerissimi. “Posso aiutarti?” le ho chiesto dandole del tu senza neanche pensarci. Perché mi ha ricordato te.

“Vorrei dare un’occhiata. Faccio in fretta” mi ha detto “Certo, fai tranquilla”.

Mi sono spostata in laboratorio per non starle addosso. Per un po’ l’ho vista dalla porta girare tre le vetrinette. Quando è ricomparsa aveva in mano una scatoletta con le tessere rosse e oro, con un disegno astratto. “Questa mi piace” ha detto e il sorriso le ha preso anche il contorno degli occhi ed è salito fin su nelle pieghe della fronte. “Bene. Sono contenta. Te la incarto?” “Sì, grazie. Che la porto in Argentina”.

Mi sono voltata a guardarla come se fosse entrata in negozio in quel momento.

“Sei argentina quindi?” “sì” mi ha risposto. “Di dove?” “Buenos Aires”.

Il cellulare ha fatto uno squillo. E’ arrivato un messaggio. Sei tu che mi scrivi che non torni a cena. Che ti fermi da Rachele. E ci metti tante faccette con gli occhi-di-cuore. Perché sai che vorrei che tornassi da me. Che se non ti vedo girare per casa con le cuffiette e la tazza di the caldo appoggiata sul tuo naso gelato, mi manca l’aria.

Emilia mia, tu sei la musica che metto a tutto volume quando guido da sola verso Rimini, sei il suono delle campane di Sant’Apollinare a mezzogiorno quando tiro giù la serranda e penso a cosa farti per pranzo, sei il tuono di quel temporale estivo dentro al silenzio eterno lasciato da tuo padre.

Alice è tornata anche il giorno dopo aver comprato la scatoletta. E il giorno dopo ancora. E’ tornata tutti i giorni fino a quando è ripartita. E mentre fuori la neve aveva ricoperto anche gli occhi scuri di San Teodoro sulla Basilica, e tu stavi per tornare dalla Polonia dove avevi iniziato questo nuovo anno che ora è già arrivato verso la fine, ha depositato lì la sua storia.

Quella di una bambina cresciuta a Buenos Aires con la madre e un padre marinaio salpato su una nave diretta in Italia. Una cartolina dall’ultimo porto in cui è stato. Quello di Ravenna. Diceva “Sto per tornare” e in primo piano il mosaico di Sant’Apollinare. Quando Alice ha aperto la Loney Planet per mostrarmi la cartolina io ero già arrivata alla fine della storia. Si era già appesa al mio corpo di cinquantenne. Ho accarezzato la linea della T di Tomas che prendeva quasi tutto lo spazio. Ho tenuto il dito premuto sopra fino a quando Alice mi ha preso la mano e mi ha stretta a sé. E io avevo solo voglia di sentire le chiavi nella porta di casa e la tua voce che dice “Ciao. Come va? Sono a casa” e il lancio delle scarpe nello sgabuzzino.

Era nata da due mesi quando tuo padre salì sulla Libertad “Da piccola mi arrampicavano sul davanzale della finestra della cucina e guardavo giù oltre le luci della città. Da lì mi sembrava di vedere il mare. E poi sono cresciuta e quando mi sono stancata di aspettare ho deciso che era arrivato il momento di cercarlo. Prima l’ho fatto a Buon Aires. Dalla sua famiglia. E poi ho preso un aereo per l’Italia. A mia madre non ho detto nulla. Vive con un altro uomo. Ha sempre evitato l’argomento. So che quando mio padre se n’è andato stavano insieme da qualche anno. Ma nulla di più ” Quella sera ha dormito da noi, nella tua stanza. Ed è toccato a me raccontare di Tomas. Della nostra prima e unica vacanza a Stromboli. Con la casa con le persiane azzurre sotto al vulcano. Della corsa in ospedale e del rumore dell’elisoccorso che ci porta a Messina. Tutti e tre. Delle sue mani lunghe sopra il bianco delle lenzuola e delle tue piccole chiuse a pugno vicino a me. Le ho parlato di te. Le ho fatto vedere le foto di quando eri piccola. Quelle dei nostri viaggi. Quando abbiamo spento la luce era quasi mattina e io avevo la voce roca e Alice gli occhi lucidi di febbre. “Mi fai un mosaico?” mi ha chiesto il mattino dopo mentre l’accompagnavo alla stazione.

Ti ho appena scritto” “Non fare tardi. Vado in laboratorio a lavorare un po’. Ti aspetto” e ho messo la faccina con gli occhi-che-guardano-in-su.

Ho mandato un’email ad Alice. Le ho scritto che il mosaico è pronto.

Stasera lo finisco. Tutti i tasselli sono al loro posto. Ho solo l’ultimo riquadro.

La D di Libertad.

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