Libertad
Ravenna non è una città di mare. A nessuno viene in mente. Eppure ci sono giornate in cui da casa nostra riesco a sentire il suo rumore. Oggi è così. Lo sento che spinge da lontano mentre sto qui vicino alla finestra. C’è vento di tramontana, quello che arriva da nord, e pulisce il cielo, piega gli alberi, spinge le nuvole e le sparpaglia. Se guardo in alto, oltre il vetro, è tutto così perfettamente azzurro.
Come i tuoi occhi Emilia quando sei nata. Come le persiane della casa a Stromboli nella nostra ultima vacanza tutti insieme . Come la linea là in fondo, in direzione del mare, verso il porto. Da dove un giorno è arrivato tuo padre. E anche quel giorno c’era vento e soffiava forte. E avevo camminato per mettere a posto i pensieri. Perché smettono di essere tali se fanno pace tra loro. Se riesco a metterli in fila, se li posso guardare ad uno ad uno. E allora devo camminare. Un passo dopo l’altro, prima sulla cinta delle mura che chiudono a cerchio la città e poi giù nei vicoli che portano al mare e sulla spiaggia, dove i piedi affondano nella sabbia e io li ripesco con forza. L'ho fatto ogni giorno dopo che il medico ha indicato con una matita il punto esatto dove lo “straniero” aveva trovato posto nel fegato di tuo padre. Una macchia scura proiettata su uno schermo bianco. Tu che dormi nella carrozzina accanto a me. Tuo padre che si alza e va via. Io che resto lì mentre il dottore cerca le parole esatte per dire ciò che non voglio sentirmi dire perché ho trentadue anni, tuo padre ne ha solo dieci più di me, tu hai appena compiuto due mesi, dobbiamo cambiare casa tra una settimana, andiamo in quella più grande, dove ci sarà la tua stanza e un terrazzo in cima al tetto. E poi perché io non voglio stare senza il marinaio. Ma il dottore va avanti, non molla, va fino alla fine di ciò che deve dire. E io ti prendo e ti attacco al seno.