A Mondovì da due anni nei servizi di tutela minori si sperimentano le conferenze partecipate di servizio, un metodo partecipativo che dà voce ai minori, ai loro genitori e a tutte le figure che loro desiderano coinvolgere nella stesura del loro progetto. Uno strumento per lavorare preventivamente sui nuclei a rischio di maltrattamento, rafforzando le relazioni. Un convegno per approfondire il come e il perché di queste pratiche

di SARA DE CARLI

C’è un ragazzino che è riuscito a dire che non è vero che non vuole vedere più il padre, vuole solo che ci siano delle regole diverse per il suo “luogo neutro”. C’è il padre che agli incontri con il figlio negli “spazi neutri” non si è mai presentato, ma che invece ha partecipato – lavoro permettendo – ad alcune conferenze partecipate di servizio. C’è la nonna che nessuna aveva mai nominato, in tanti anni di presa in carico dei minori, che finalmente ha avuto parola. E il nuovo compagno della mamma di Giulia (nome di fantasia), che era sempre sembrato una figura di secondo piano e che invece, quando i servizi lo hanno incontrato, si è rivelato un pilastro del cambiamento possibile: l’incontro con lui ha modificato completamente lo sguardo dei servizi sul nucleo familiare. 

Questi frammenti di storie provengono dal territorio di Mondovì, nel cuneese, dove nel maggio 2021 è partito Kintsugi, un progetto triennale rivolto a bambini e adolescenti vittime di maltrattamento, finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini attraverso il bando Ricuciamo i sogni e coordinato dalla cooperativa sociale Armonia Onlus. Ce le raccontano Massimiliano Ferrua, direttore Ricerca e Sviluppo della Cooperativa Animazione Valdocco di Mondovì (Cn) e Simona Peyra, educatrice della stessa cooperativa. 

Kintsugi fa riferimento all’arte giapponese che utilizza l’oro fuso per riparare e riunire i cocci, creando “cicatrici d’oro”: una metafora che getta una nuova luce sui percorsi che coinvolgono i minori e le famiglie seguite dalla tutela minori. Il progetto copre l’area dell’Asl Cn1, con 22 enti che nei quattro poli – ognuno con le proprie specificità – stanno sperimentando strumenti innovativi per la protezione e la cura dei minori maltrattati nonché per la prevenzione di ogni forma di violenza. C’è chi ha puntato sul potenziamento delle comunità residenziali, chi sulle reti, chi sul potenziamento delle competenze genitoriali, chi sull’accompagnamento all’intero sistema familiare maltrattante. È proprio quest’ultimo l’aspetto su cui ci si è concentrati nel monregalese, dove la Cooperativa Animazione Valdocco opera dal 1989, da sempre collaborando con i Comuni e con il Consorzio dei Servizio Socio Assistenziali del Monregalese-Cssm. Da circa dieci anni la cooperativa promuove metodi partecipativi che coinvolgono i cosiddetti “utenti” e le loro famiglie nelle decisioni che i servizi sociali e sanitari prendono per loro. Nel 2013 la cooperativa ha portato in Piemonte le Family Group Conferences grazie all’incontro con Francesca Maci, quindi ha sperimentato l’advocacy professionale con il supporto dell’associazione Advocacy. Voce e Tutela dell’Infanzia e ora con il progetto Kintsugi da due anni ha adottato le Conferenze partecipate di servizio.

«L’idea è di cercare modi nuovi e pratici per restituire presenza, partecipazione e potere decisionale alle persone coinvolte in percorsi di protezione e tutela da parte dei servizi professionali, per la maggior parte minori con problemi di tutela e loro famigliari», annota Ferrua. «Le famiglie hanno il diritto di partecipare alle decisioni che le riguardano, mentre può capitare che i servizi professionali di aiuto diventino istituzionalizzanti: intendo dire che anche gli interventi legittimi e corretti decisi dall’Aturorità Giudiziairia o dai servizi, talvolta non considerano il parere e le idee del minore stesso e di chi fa parte del suo gruppo famigliare. Questo produce frustrazione, ansia e smarrimento per persone già coinvolte in percorsi traumatici e complessi». Ecco quindi il senso della sperimentazione di queste pratiche collaborative.  

Da cosa nasce la scelta di questo approccio, all’interno del progetto Kintsugi?

Ferrua: Il progetto parte trasversalmente dalla constatazione di quanto sia difficile lavorare, oggi, sull’obiettivo del rientro nel proprio contesto naturale del minore che passa un periodo in comunità o in affidamento. È certo nelle intenzioni dei servizi lavorare anche con il nucleo familiare d’origine, per recuperare le sue condizioni sufficientemente tutelanti: ma la verità è che non si riesce quasi mai a farlo. Se questa è la realtà, occorre provare strumenti innovativi. Noi, insieme al Consorzio dei Servizio Socio Assistenziali del Monregalese, che ha supportato convintamente la sperimentazione dedicando una assistente sociale al team integrato e condividendo tutti i passaggi e le evoluzioni necessarie, abbiamo scelto di sperimentare le Conferenze partecipate di servizio.

Che cosa sono le Conferenze partecipate di servizio? Come possiamo immaginarle? Cosa le caratterizza e cosa le differenzia rispetto ad altre pratiche collaborative?

Ferrua: Sono delle riunioni di servizio multidisciplinari e multiprofessionali, coordinate e condotte dall’assistente sociale titolare del caso, ma allargate agli utenti e alla loro rete naturale. Il team integrato è composto da un assistente sociale dedicato, da Simona che è un’educatrice della cooperativa e da una psicologa dell’Asl Cn1. Poi c’è il minore (se lo desidera, se non se la sente di partecipare fisicamente ma vuole che la sua voce arrivi e vuole sapere le cose che vengono dette, può farsi rappresentare da un portavoce professionale), i familiari, le persone importanti di quella situazione specifica: la nonna, il compagno della mamma, la psicologa, l’insegnante, l’operatore del Serd che segue la mamma, il carabiniere che è intervenuto in occasione di una violenza domestica…  La premessa è che l’assistente sociale prepara una scheda informativa sulla situazione della famiglia e sul progetto che intende avviare, che deve essere accessibile, cioè comprensibile, al minore e ai familiari: qui c’è un primo aspetto di “mediazione” da parte dell’operatore. Con questa scheda in mano, il nucleo decide se avviare il percorso delle Conferenze partecipate di servizio (e quindi l’assistente sociale fa partire gli inviti alle varie persone) o se, invece, intraprendere un percorso “classico”. Si tratta di dare in mano ai ragazzi la palla, perché siano loro a dire chi davvero conta nella loro vita e provare a portare queste persone dentro il percorso dei servizi, perché magari con la loro presenza cambieranno il destino del progetto, che nella sperimentazione è un progetto individuale e di sistema-PIdS.teenager-bixabay.jpg 

Peyra: Nella nostra sperimentazione, diversamente dal modello anglosassone, non si tiene una sola conferenza, ma ci si ritrova ogni mese e mezzo per un periodo di tempo definito. Abbiamo introdotto alcuni elementi innovativi per far sì che i minori e le famiglie siano chiamati ad essere più proattivi. I ragazzi per esempio stendono una “lista di desideri” che presentano in Conferenza e tra una conferenza e l’altra io incontro la mamma o il papà o l’adulto di riferimento per capire se gli obiettivi che ci si era dati stanno funzionando, così da arrivare alla conferenza successiva con un atteggiamento proattivo, delle proposte per correggere la rotta. È un po’ questo l’obiettivo di fondo: lavorare contemporaneamente con il minore e con l’adulto per – innanzitutto – aumentare e migliorare le relazioni fra loro. La ricostruzione dell’ambiente relazionale è il primo step: si parte sempre da cose semplici, pragmatiche, operative, che però rimettono in moto la relazione. Con Giulia, per esempio, segnalata ai servizi dalla scuola perché in un tema aveva scritto di maltrattamenti da parte della madre, siamo partiti dal far dire a Giulia e alla mamma tre pregi e tre difetti l’una dell’altra, poi abbiamo scelto piccole attività che potessero fare insieme. La svolta in quella storia è stato il coinvolgimento del compagno della madre: quando Giulia ha letto la sua lista dei desideri, lui è stato il primo a prendere parola per dire che quando lui la sgrida è perché la considera come una figlia. Questa cosa ha strappato un sorriso a Giulia, che forse per la prima volta si è sentita dire certe cose: lei poi ha detto che non se lo aspettava proprio, anzi, che pensava che lui non sarebbe neanche venuto alla Conferenza. La presenza di quell’uomo a quel tavolo ha cambiato le cose non solo per Giulia ma anche per i servizi, che dai racconti della madre avevano sempre considerato questo compagno come una figura secondaria, mentre quel giorno hanno proprio cambiato sguardo su quel nucleo. 

Quanti nuclei avete coinvolto nella sperimentazione e hanno quindi partecipato alle Conferenze partecipate di servizio?

Ferrua: In questi due anni, hanno accettato il progetto 14 minori: 2 sono già rientrati in famiglia, riuscendo così a rispettare i tempi previsti dal giudice; 6 hanno i progetti “attivi” e conferenze in atto (uno comincerà a novembre e uno potrebbe anticipare il rientro in famiglia a giugno 2024); 5 sono minori di nuclei che hanno accettato il progetto e si stanno preparando alla conferenza partecipata. Un nucleo, infine, ha accettato il progetto ma non si presenta agli incontri: lo dico perché non sembri che sia tutto rose e fiori. Aggiungo anche che siamo consapevoli che nella “famiglia” delle pratiche collaborative, le Conferenze partecipate sono una sorta di “livello intermedio”: non c’è quella delega di potere reale da parte dei servizi che c’è per esempio nelle family group conferences. Tuttavia un cambiamento così grande genera una fatica significativa nei servizi, così che non si riesce tanto ad andare al di là della sperimentazione: nell’ottica della messa a sistema, così, abbiamo pensato che le Conferenze partecipate di servizio potessero essere un punto di partenza. Credo che siamo gli unici in Italia a farlo, soprattutto nella scelta di coinvolgere non solo i minori che sono già stati allontanati dalle famiglie, ma anche quelli per cui c’è una segnalazione ai servizi così da provare a vedere se questo sostegno riesce a prevenire l’allontanamento.

Quali sono i risultati?

Ferrua: I risultati sono di due tipi: il primo riguarda l’inserimento negli schemi di protezione dei servizi educativi e sociali della parola e dell’azione dei gruppi naturali, resi più consapevoli e più responsabili. Nelle traiettorie dei nuclei che abbiamo seguito sono “successe cose” che dicono di questo nuovo protagonismo delle persone: per esempio due genitori che, al momento del rientro in famiglia dei due figli, hanno ritenuto di cambiargli scuola in maniera discorde rispetto al parere degli educatori della comunità. È un esempio, ma a volte effettivamente queste famiglie hanno schemi che non combaciano con i nostri, ma che nella loro situazione quotidiana sono più funzionali: noi dobbiamo imparare a dire “ti aiuto a fare come tu pensi che sia meglio”. Il secondo esito è lo spostamento dei professionisti, che cominciano a lavorare “in presa diretta” con i loro utenti: abbiamo visto dei professionisti mettersi davvero in gioco e ripartire.

Peyra: Per un operatore è un approccio del tutto diverso. Devi provare a non sostituirti alla mamma, al nucleo. Devi rinunciare al classico “io farei così”, “secondo me dovresti fare cosà” per chiedere invece “bene, tu cosa pensi che potresti fare?” o “io come posso aiutarti?”. Questo è stato un cambiamento enorme, perché nella tutela minori quando un genitore fa delle scelte che non rientrano nei nostri schemi, la prima cosa che ci viene da fare è lasciarlo da parte e sostituirci. L’altro tema è quello della collaborazione da parte di tutti i servizi e gli operatori coinvolti: alle Conferenze tutti i convocati, sia lato sociale che lato sanitario, sono sempre stati tutti presenti. Un terzo esito importante è che le Conferenze ti danno la possibilità di conoscere tante sfaccettature della famiglia, compresi i “personaggi secondari” che poi spesso e volentieri scopri che secondari non sono: quando nei servizi segui la famiglia in modo “classico” invece, ti interfacci sempre solo con quella persona o quelle due persone. Dal punto di vista degli utenti, dare loro il messaggio che “possono farcela”, che “sono in grado” è rivoluzionario.

FerruaChiedersi “che cosa possiamo fare insieme” significa che io come operatore accetto di fare spazio a te dentro il mio progetto. La difficoltà è questa, ma questa è esattamente la potenzialità formidabile di questi percorsi: non sono più io operatore sociale che, siccome ho in mente un’idea di educazione e di tutela, so dove voglio condurti e quindi tengo la cloche del progetto. Io operatore sociale negozio con te, cittadino, quello che si può fare: permetto che il cittadino con i suoi modelli entri un po’ nei miei modelli istituzionali. È questo il fascino della partecipazione. 

Che cosa dire agli operatori per stimolarli a fare questo passo? Dicevate voi stessi quanto è concretamente difficile passare dalla sperimentazione alla messa a sistema…

Peyra: Serve portare i risultati. Serve far vedere come questo metodo prende davvero in carico tutto il nucleo, nessuno resta indietro. Serve ribadire che il fatto che questo percorso sia circoscritto nel tempo “accelera” i tempi in cui una famiglia viene resa autonoma, uscendo da quelle prese in carico che durano anni e che alla fine diventano assistenzialismo.

Ferrua: Per chi vuole promuovere questo tipo di approccio, penso che una partenza sia il provare a metter lì il granello, ogni volta che si discute di un caso: «Abbiamo pensato a chiedere al ragazzo? Come possiamo coinvolgerlo a decidere con noi?». Ricordo un’assistente sociale di Tower Hamlets, a Londra, dove le Family Group Conferences si fanno da 35 anni, che mi raccontava come quando lei andava in ferie il numero di conference proposte crollava: ci vuole una advocacy continua della partecipazione e le persone fanno la differenza. E poi c’è l’aspetto economico-finanziario: famiglie meno caricate di servizio sociale costano molto meno alla comunità e i bambini non sono meno tutelati.

Save the date

Di conferenze partecipate di servizio, di family group conference, di advocacy professionale e di pratiche collaborative nei servizi di cura e tutela minori si parlerà giovedì 26 ottobre a Mondovì, in un incontro organizzato da Consorzio dei Servizi Sociali del Monregalese e Cooperativa Animazione Valdocco. Il punto di partenza è la sperimentazione in corso nel monregalese del metodo delle Conferenze Partecipate di Servizio, nell’ambito del Progetto Kintsugi, uno dei progetti selezionati dall’impresa sociale Con i Bambini attraverso il bando “Ricucire i sogni”, coordinato dalla cooperativa sociale Armonia Onlus su tutto il territorio dell’Asl Cuneo 1. Quello di Mondovì è il terzo appuntamento di co-progettazione del “kit di prevenzione” previsto dal progetto, a cui parteciperanno i professionisti e i rappresentanti territoriali della comunità educante.

Alle ore 18, invece, i lavori si aprono al pubblico: Francesca Maci (docente di lavoro sociale, formatrice e capostipite della Family group Conference Italia) e Paola Turroni (scrittrice, social worker e presidente dell’associazione Advocacy. Voce e tutela dell’infanzia), figure di spicco in Italia per le pratiche collaborative nei servizi di cura e tutela minori, dialogheranno con Sara De Carli, giornalista di VITA, su come si fa a “fare posto” agli utenti dei servizi sociali nei percorsi decisionali che li riguardano quando emergono problemi di tutela o di protezione e soprattutto… perché funziona. L’appuntamento è al Museo della Stampa a Mondovì (piazza d’armi 2/E). Info: Francesca Rolando, mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – cell. 3346740890

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