Il 1 dicembre ricorre la Giornata Mondiale di lotta contro l’AIDS: mentre alcuni ironicamente la definiscono “Festa dell’AIDS”, sottolineando una scarsa utilità di questa celebrazione, la giornata rilancia annualmente una sensibilizzazione che quotidianamente viene svolta nei servizi.
Insieme ai discorsi sull’evoluzione dell’epidemia (che in Italia contagia almeno 11 persone al giorno) e sulla poca attenzione che ad oggi i giovani le dedicano (25-29 anni la fascia più colpita nell’ultimo biennio), è importante soffermarsi su cosa significhi vivere con l’HIV da anni, alla luce del fatto che l’AIDS non è, nella considerazione e nei vissuti, una malattia come altre.
La tesi di laurea della dott.ssa Enrica Catalano, realizzata anche presso il servizio Casa Verde di Volvera ci fornisce alcuni spunti interessanti.
L’AIDS non è una malattia come le altre, dicevamo. Se qualcuno che incontri ti dice di avere il diabete o l’influenza o l’epatite non è come sentirsi dire sono sieropositivo, ho l’AIDS.
Il processo della sua costruzione sociale può spiegare in parte la questione.
La prima diagnosi di AIDS venne fatta nel 1981 negli USA riferendosi ad una sindrome che si ripeteva mortale, senza cura e della quale non si conoscevano le cause. Per definirla venne utilizzata la metafora di “Peste del 2000” paragonandola alla pestilenza che nel 1300 sterminò oltre un terzo della popolazione europea.
L’osservazione che ad essere colpite principalmente fossero persone considerate più o meno devianti stimolò discorsi di “punizione divine” e complottismi. Questo perché il contagio si verificava soprattutto nelle categorie delle cinque H: Heroin Addict, Homosexuals, Hookers a cui si aggiungevano Hemofiliacs e Haitians, a sottolineare lo stigma secondo il quale le persone di colore erano più predisposte a contrarre la malattia.
Anche una volta individuato il retrovirus HIV, nel 1983, si scatenarono polemiche e spiegazioni alternative, alcune ridicolmente presenti ancora oggi: presunti complotti dell’industria farmaceutica, esperimenti di guerra batteriologica sfuggiti al controllo e altre cause diverse che con la scienza infettivologica poco avevano e hanno a che fare.
La prima campagna ministeriale sull’AIDS venne commissionata all’Agenzia Armando Testa nel 1988.
L’obiettivo della campagna in quel momento fu accrescere tra la popolazione la conoscenza del problema e dissipare le paure infondate. Lo spot televisivo andò in onda sulla Rai a reti unificate ed in sottofondo una voce segnalava che: “per l’AIDS non esiste ancora cura, ma per fortuna non è facile ammalarsi di Aids, dipende dai nostri comportamenti”.
Nel 1989 con la campagna “Se lo conosci lo eviti” viene nuovamente alimentata la paura del contagio: con la profilazione in viola dei personaggi infetti, vennero sottolineate le categorie a rischio, come i tossicodipendenti, gli omosessuali e le persone che avevano rapporti con molti partner.
Scoprire di essere sieropositivi, dal 1981 al 1996, significava vivere con il terrore della malattia, e la consapevolezza che non era possibile guarire. Lo slogan televisivo portò con sé il timore che ogni malato di AIDS fosse un soggetto pericoloso, da evitare.
Dal al 1996 con l’individuazione delle terapie antiretrovirali è stato possibile limitare le morti, senza riuscire ad eradicare il virus, ma trasformando la “Peste del 2000” in patologia cronica, con la quale, a determinate condizioni, è possibile convivere. Ciò ha determinato contestualmente un calo dell’attenzione generale sull’argomento senza modificare però i pregiudizi sul tema.
È significativo che un’alta percentuale dei malati (4 su 10) voglia tenere nascosta l’infezione ai propri familiari. “Per proteggerli” è la spiegazione più sentita, o per proteggere sé stessi dalle reazioni che il sapere potrebbe innescare. La paura ingiustificata del contagio personale e l’ancora diffuso giudizio di “essersela andata a cercare”, è tutt’altro che sparito.
Gli episodi di discriminazione piccola o grande che i sieropositivi si trovano a subire si verificano anche nel settore sociosanitario, magari attuati senza nemmeno aver la consapevolezza di metterli in atto, attraverso uso eccessivo di mezzi di protezione e talvolta sottovalutando il peso emotivo di chi vive questa condizione: “Un peso che i farmaci non affievoliscono, la qualità degli sguardi e degli atteggiamenti di chi viene a scoprire che sei affetto da HIV”.
Ci sono approfonditi studi sulle conseguenze negative che generano sulle persone le discriminazioni messe in atto anche nel percorso di cura, sentimenti di tradimento, sfiducia e minor compliance. Che si traducono poi in un minor accesso alle cure e a rischi aumentati di contagio.
Buon 1° dicembre.
Davide Salvatico
Responsabile “Casa Verde” di Volvera